Quando vidi per la prima volta Lettera da una sconosciuta avevo 15 anni. Tutto allora mi sembrava così tempestoso e così definitivo. Il mio primo amore , naturalmente, non sapeva che l’adoravo. La struggente vita di Lisa, consumata da un amore assoluto per chi l’aveva quasi sempre ignorata, mi apparve quindi come una proiezione del futuro. Ma se io, grazie a quel film, sublimavo la sofferenza di domani, Lisa invece era un fantasma che mi raccontava la sua vita dal mondo di ieri. In soli novanta, indimenticabili, minuti, la giovinezza e l’invecchiamento, l’amore e il desiderio, l’avvenire e la morte danzavano una ronde avvolgente che mi regalava, stranamente, non solo angoscia ma anche eccitazione. Da che cosa nasceva questo piacere che avrei poi provato con tanti altri film? Forse, come scrive Truffaut, da quel rosso che colora la terribile agonia di Agnese, in Sussurri e grida? Da allora non ho più smesso di cercare risposte. E non ho più smesso di amare Lisa e il cinema.