C’è un momento segnato da spunti di magia, lampi di luce e meccaniche in cui la musica, il suono, l’immagine, il movimento, il colore, il ritmo e il racconto si fondono in uno sguardo sull’immaginazione e sul sensibile. E non importa se si è materializzato per la prima volta in piena estate su uno schermo all’aperto, o durante una proiezione accademica, oppure a scuola, sul televisore di casa o attraverso i frammenti sparsi in YouTube. Quel momento è Fantasia (1940) e, ripensandoci a distanza di anni, coincide più o meno con l’istante in cui uno si rende conto che la nostra vita è abitata da tutti quegli elementi eterogenei eppure complementari e che può valere la pena studiarli e analizzarli. Per comprendere le regole di quella magia e per poterle magari insegnare ad altri, ai bambini e ai grandi. Per fare in modo che quel momento magico travestito da Fantasia si mostri nella sua essenza di cinema e si possa così respirare in tutta la sua vitale capacità di affascinare.  

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