Pomeriggio estivo, visione solitaria. Indole adolescenziale esagitata, incastrata in un quartiere residenziale della provincia cronica: da quell’osservatorio placido, erano immagini che proiettavano lo sguardo a ridosso di un autentico campo di battaglia. Versione doppiata in italiano, una consunta VHS redarguita dai rimbrotti di alcuni amici più grandi e smaliziati (“in originale parlano tutti in verlan!”). Quel che più conta: prima volta che di fronte a un film — del presente e sul presente, reso in bianco e nero per precisa scelta estetica — mi chiedevo anche il suo perché. Faceva problema quella scelta, quasi chiedesse ostinatamente di essere compresa. Era forse su quell’effetto reportage dalla banlieue parigina, eppure così spiazzante, plastico e stiloso, la prima domanda che ponevo al cinema? Di certo la metafora di Hubert, della caduta e dell’atterraggio, era la prima lezione che da esso ricevevo.