In una lettera indirizzata a Pepin Bello del 10 febbraio 1929, Luis Buñuel racconta che Un chien andalou si sarebbe dovuto intitolare La marista de la ballesta. Sappiamo però che il titolo provvisorio del film, scelto in accordo con Salvador Dalì, era Dangereux de se pencher en dedans (Prohibido asomarse al interior), parafrasi invertita del divieto di “sporgersi al di fuori”. Il titolo che invece appare nella sceneggiatura originale spagnola – dattilografato e poi cancellato – è La vaya marista (La beffa marista), bizzarra allusione, dato che gli unici maristi che compaiono nel film sono i due frati trascinati dall’attore Pierre Batcheff nella celebre sequenza delle carcasse degli asini depositate sui pianoforti a coda. L’altro importante elemento che contraddistingue questa versione originale spagnola è l’ordine in cui compaiono le sequenze: la sceneggiatura non si apre infatti, com’è noto, con la sequenza del taglio dell’occhio, bensì con quella del giovane in bicicletta – che nella versione pubblicata in francese e in quella effettivamente realizzata si colloca, invece, subito dopo il celebre prologo. Come nota Paolo Bertetto nell’Enigma del desiderio, se la sequenza de taglio dell’occhio fosse rimasta alla fine, non come prologo ma come epilogo di Un chien andalou, la ricezione e il senso stesso del film avrebbero subito profonde modificazioni. Collocata come prologo, la sequenza gioca un ruolo destabilizzante nel mostrare in tutta la sua efferata concretezza la necessità di una radicale trasformazione del modo di vedere, ovvero il bisogno di trasgredire il regime ottico-retinico della visione e, più in generale, seguendo le tesi di Georges Bataille contenute nel Dossier de l’œil pinéal, di contraddire la “teoria” che sostiene l’asse verticale della conoscenza speculativa.

Non è stato l’occhio tagliato di Buñuel che mi ha invitata a “sporgermi all’interno” di Un chien andalou, ma quello estatico di Sergej Ejzenštejn. In una nota manoscritta contenuta nel diario del regista e teorico russo, datata Parigi 5 gennaio 1930, Ejzenštejn descrive così la sua visione del film scritto e realizzato da Buñuel e Dalì: “È caratteristico che un asino sia il simbolo della virilità… Buñuel ha il cadavere […] / Occhio tagliato – complesso di castrazione / E logicamente le carogne degli asini – virilità / L’appello all’omicidio è un appello al suicidio / Bisogna incontrare Buñuel.