A noi danzatori non era dato di sapere quale brano avrebbe accompagnato i nostri movimenti durante la performance. Ci era stato detto che l’aveva composto John Lurie, ed era tratto dalla colonna sonora di un film che non avevo visto. Suoni prolungati di archi, silenzi, melodie sinistre e languide. Poi quel film passò al Cinema21, la sala del quartiere in cui abitavo a Portland. Ho visto Stranger Than Paradise a vent’anni anni. Ero lontana da casa da quattro mesi e, come la cugina ungherese sbarcata a New York con una valigia, non capivo l’America né gli americani. Forse i film della vita sono anche quelli che ti fanno vedere qualcosa della tua vita, in un preciso momento. Stranger Than Paradise mi ha fatto vedere quel che non capivo. Ha dato forma allo straniamento, al mio sgomento di fronte a una cosa come il TV dinner. Ma, imprevedibile e sinistro come quella musica che arrivava sul palco, mi ha anche detto di smettere di affannarmi perché, alla fine, non c’è poi molto da capire.   

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