“Ma i Talking Heads ci spiegano che è tutto a posto”, ripeteva Dick Hebdige in un bel saggio, “Imparando a vivere sulla strada per il nessun dove”. Poche illuminati pagine, pubblicate anche in Italia ad inizio anni ’90, dedicate a un videoclip di 4 minuti, fatto di immagini apparentemente slegate tra loro e surreali. “Road to nowhere” e quel saggio mi hanno fatto capire che il pop è un gioco che va preso sul serio, che attraverso i media si capisce meglio la musica e che attraverso la musica si capiscono meglio i media.

Arrivavo da una tesi sulle teorie degli audiovisivi: per le mie prime ricerche cercavo uno spunto per incrociarle con la mia altra grande passione, la musica. L’ho trovato nel videoclip: in quel periodo, era un oggetto che stava ridefinendo i linguaggi degli audiovisivi e del pop, ma era sorprendentemente poco studiato. Hebdige lo analizzava in maniera seria e leggera allo stesso tempo, spiegandone i meccanismi e il racconto “denso” costruito da David Byrne.

Qualche anno dopo ho scritto il mio primo libro: era una ricerca sui videoclip, che mi commissionò la VQPT della RAI; quelle pagine e quel video mi hanno guidato. Continuo periodicamente a tornarci: nella prima lezione di un corso, di solito chiedo se conosco l’autore di “Come funziona la musica”, che hanno in bibliografia. Per questioni generazionali, so già la risposta sarà inevitabilmente negativa. Poi faccio ascoltare una canzone dei Talking Heads, gli studenti la riconoscono da qualche performance di un talent e vedo le loro facce illuminarsi. Il pop, la musica e i media sono inscindibili, me l’hanno insegnato David Byrne e i Talking Heads.