Suonavano le note sconsolate di Needle in the Hay: al di sotto di una stratificazione grottesca di barba sfatta, occhiali da sole e fascetta da tennis troppo stretta, il suo sguardo doveva essere di inarrivabile tristezza. Guarda me o si guarda allo specchio? O sono io che, attraverso di lui, guardo allo specchio me stessa? Rapita, bevevo quella sequenza di rasatura rituale, presagendo con timore calmo a che cosa avrebbe condotto: il tentativo di suicidio di Richie, uno dei protagonisti dei Tenenbaum di Wes Anderson (2001).

C’è chi come Wes Anderson sa esprimere la profondità della disperazione umana, e al contempo mostrare come in fin dei conti sia cosa da poco, quasi risibile, quasi ridicola. Con l’esito, paradossale, di confortarci. I Tenenbaum è il film più disperante e al contempo più esilarante che mi fosse capitato di vedere fino a quel giorno. Ed è il film che mi ha fatto capire che quella che credevo prerogativa della poesia appartiene anche alle immagini in movimento.

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