Inizia tutto con una lama: la superficie perfetta dell’acqua, la luce tenue dell’alba, un’attesa inerte. A un tratto lo specchio perfetto del lago si frange, deflagra in uno sprazzo che illumina il grigio. Una lama liscia e grigia come l’acqua ferisce il velo perfetto in un bagliore verde. Una mano pallida segue la lama, brandendo l’elsa lucida nel gorgo spumoso. Pochi infiniti secondi, nello spasmo del ralenti. In sottofondo, nel golfo mistico del fuori-campo, due note di Wagner scandiscono l’apparizione.

Così inizia il cinema nei miei ricordi: un fantasma, un sogno febbrile al limitare dell’alba, una lama che fende il buio, un interminabile istante. Dal profondo l’irraccontabile, l’irrappresentabile, taglia il tempo in un prima e un dopo, in un presente in continua fuga. L’immagine diventa suono, la musica si fa visione; colori e note si confondono, l’immagine e il suo mito divengono tutt’uno.

La realtà non basta ed è di troppo: occorre ferirla in sogno, al limitare dell’alba.