È il 16 marzo 2011, l’aula gremita, in programma cinema americano contemporaneo, un film di Tim Burton. Ma non possiamo far finta di nulla, dice la docente. Cinque giorni prima il terremoto ha scosso il Giappone, poi un maremoto da fine del mondo – ora Fukushima vacilla sul baratro nucleare. Si parla di ventimila morti. Nell’insensatezza, cerchiamo un senso nei film: appaiono sullo schermo le immagini in bianco e nero, i corpi avvinti, le voci fluttuanti, Ho visto tutto a Hiroshima, l’ospedale, il museo, Piazza della Pace, i sette bracci del fiume Ōta, Non hai visto niente a Hiroshima.

Pensavo di averlo già visto quel film. Invece, come Emmanuelle Riva, non avevo visto niente di Hiroshima. In quel momento lo vedo davvero e riesco solo a pensare, il cinema può essere così. (Non saprei definire quel così, ma poco importa). Lo spartiacque è segnato, per me ci saranno un prima Hiroshima e un dopo Hiroshima, divisi dalla faglia che separa il guardare un film dal vederlo.