Potrei dire quando, adolescente, fui folgorato dalla partita di tennis senza palla di Blow up. Potrei risalire più indietro. A quella sera in cui, bambino, fui investito dalla visione dell’Angelo sterminatore.

Ma un’ulteriore illuminazione, destinata a confondere (e chiarire) un po’ le cose, fu quando, proiettato nella cinefilia da un docente che seppe iniziarci all’analisi critica intesa come tensione verso la conoscenza profonda dell’oggetto indagato, cominciai a parlare con passione di cinema agli amici. Raccontando film, sequenze.

Mi resi allora conto che, non di rado, ciò che ricordavo non coincideva del tutto con le pellicole in oggetto. Era dentro la mia testa, dunque, il bel cinema?

Ecco, il cinema e l’immagine mentale. L’opposizione gnostica immaginario/immaginale (il primo può essere innocuo, il secondo non lo è mai) che, laicizzata, ispirò la psicologia post-junghiana. Questo sarebbe divenuto il mio approccio alla visione, il mio modo di chiedermi “cosa vogliono le immagini”.