La potenza di un’immagine che culla ancora dopo anni di sedimentata memoria. Riconoscersi nello sguardo dello stupore, al manifestarsi di una creatura non terrena, non poter reagire che con un occhio illuminato da cotanta meraviglia e incredulità. In un fotogramma, si condensa il fantasma di quell’apparizione per cui ho deciso di approfondire gli studi di filmologia: sperare di poter spiegare un giorno, con parole razionali, a me stessa e a chi ne domandasse l’interesse, la sensazione di accesso a un mondo altro provata al cinema, la quasi comprensione del mistero umano, l’accettazione di una fede.
Quella creatura che contemplano i tre fanciulli, è per me il barlume crescente che accende la tela del proiettore al progressivo smorzarsi delle luci in sala. È la storia di un’epifania che ha un po’ i tratti del canto popolare, che intona una liturgia comune a tanti uomini, sentita da almeno quattro generazioni e che sento anche io come verità più intima e meritevole di trasmissione. Lo sguardo condiviso di bambini di fronte alla schiusa di un uovo sacro, sia esso l’incontro con un extraterrestre o un nascondino, l’abbandono di una partita per fuggire verso il mare mai visto prima come il piccolo Antoine Doinel o una caccia al tesoro, è lo sguardo che regola il nostro incontro col mondo, la capacità di incanto di fronte ad esso, voler vedere e cercare il soprannaturale nel naturale, nell’accordo taciturno di un segreto. Ancora oggi, il verbo razionale reclamato qualche riga più su, vacilla al cospetto di quella che talvolta assume tutti i tratti della magia più perfetta cui si stenta a credere come opra di ingegno umano e la si vive come soglia a un pensiero superiore.