«I heard it before. Long ago. But where?». L’eco di una storia, rimandato da una conchiglia, è tutto ciò che sembra rimanere alla fine di Une Histoire immortelle (Orson Welles, 1968). È un film caleidoscopio che recupera piccoli cristalli di personaggi e oggetti da opere precedenti per esplorare il potere demiurgico tipicamente wellesiano e più in generale dei narratori di storie, o meglio di coloro che trasformano le profezie in realtà. Cosa rende una narrazione immortale? Il suo accadere? Non si tratta piuttosto di un’illusione, perché “il far-essere” prende sempre un’altra strada più imprevedibile, e ciò che rimane è invece la coazione stessa a raccontare, il bisogno di dar corpo (e immagine) a un’urgenza che sfida addirittura il Logos? In questo piccolo film – a cui rivado spesso – oltre alla ri-creazione di un mondo vi sono l’esplorazione geologica e insieme la messa in rilievo di questioni basilari per la macchina-cinema (arte/mercato, autore/attore, illusione/realtà, autore/spettatore, …). Sono questioni sulle quali non resta che mettersi in ascolto, come del resto fa il segretario di Mr. Clay, tornando a chiedersi: «I heard it before. Long ago. But where?».

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