Joan Chen che, canticchiando, volge lo sguardo fuori campo a sinistra, attirata da non si sa cosa. Il ventilatore a pale che gira veloce nel corridoio buio deformato da un’inquadratura dal basso. Sarah Palmer che chiama la figlia Laura e poi, non ottenendo risposta, comincia a cercarla. I telefoni, uno bianco, l’altro nero. E quella musica – My daughter is dead.

Twin Peaks, a 15 anni – per uno che, a 15 anni, ha già scelto che nella vita avrà voglia di occuparsi di cinema –, è una ferita e una festa. Qualcosa che cambia radicalmente il modo di guardare il mondo e le sue storie, non soltanto i film. (Dis)educazione indelebile, gioioso ingresso nella diversità. E quando, 26 anni dopo, la promessa viene mantenuta («I’ll see you again…»), a rivedersi sono anche quel quindicenne stupefatto e la sua versione realizzata almeno, o forse soltanto, in tema “aver voglia di occuparsi di cinema”. Che poi vuol dire proprio questo: affidare l’autobiografia all’esistenza imprevedibile delle immagini.

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