Oltre lo schermo, Rotwang e Joh Fredersen si tormentavano nel ricordo dell’amata Hel; poi un robot con forme femminili e arcaiche avanzava lento, in silenzio. Al di qua della piccola televisione, però, c’era una tempesta di strilli e risate. Una classe di dodicenni esplodeva d’energia, mentre l’insegnante era impegnata altrove. La docente di Educazione Tecnica proponeva spesso film in videocassetta, scegliendo i titoli con grande libertà; si andava da Problem Child ad Awakenings. Quel giorno, chissà perché, fu il turno di Metropolis, e un ragazzino seduto proprio sotto lo schermo venne portato in un altro mondo. Gli occhi erano ipnotizzati e il frastuono dell’aula non lo riguardava. Per lui c’erano solo immagini spaventose e bellissime, e il bisogno di averne ancora di più.

Metropolis fu un trauma meraviglioso. Tentai di superarlo con una tesi di laurea, invano. Decisi allora di scacciarlo con nuovi traumi simili, un film dopo l’altro. Non ci sono ancora riuscito, per fortuna.