Perché c’è dentro tutta la forza del teatro: parole e gesti, testo e improvvisazione, tragedie e saltimbanchi. Perché racconta la vitalità della finzione e la messinscena che nutre la vita: i personaggi principali recitano o scrivono per il palcoscenico ma è nella propria esistenza che realizzano le recite più memorabili. Perché nelle pantomime sublimi di Jean-Louis Barrault e nel romanticismo scintillante dei dialoghi di Prévert c’è il cinema di prima e di dopo, il muto e il sonoro. Per il suo impasto raro di commedia, dramma, noir, farsa, melò, kolossal in costume, mise en abyme. Perché fu realizzato in condizioni difficilissime, fra collaborazionisti di Vichy e collaboratori ebrei in clandestinità. Perché di fronte a questa cattedrale di emozioni, di cui si vorrebbe far parte, si resta alla fine come Maria Casarès, a gridare «Et moi?». E perché quando l’ho visto, in un solitario pomeriggio d’estate, non avevo neanche diciott’anni.

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