La rivelazione per me è arrivata alla fine degli anni ’60 con la scoperta dei film di Robert Bresson, soggiogato in particolare dalle sequenze votate alla morte dei protagonisti: Balthazar, Mouchette, Femme douce. Fu il preludio di un progetto che mi divenne chiaro in seguito: ridurre il peso rappresentativo delle immagini a vantaggio di quello evocativo dei suoni per comporli facendo scaturire un senso spesso inatteso. Mortificando nello spettatore il piacere naturale di vedere, Bresson si prefigge l’impresa impossibile di piegare il cinema alle prerogative della lingua. Ci prova con ostinata dedizione tutta la vita, fino all’ultimo. Persegue un obiettivo impensabile da praticare in maniera sistematica. Ma nei momenti in cui il tentativo gli riesce, come nella strage dell’Argent, ti fa accedere all’esperienza del sublime.