Le immagini in movimento, e le voci che le accompagnano, sono alcuni dei ricordi più vividi che ho della mia infanzia. Frequentavo il penultimo anno di liceo, però, quando scoprii che i film potevano essere studiati, decostruiti, interpretati, al pari delle versioni di greco e di latino. Due docenti della mia scuola organizzarono un laboratorio di analisi cinematografica incentrato sulla filmografia di Billy Wilder: L’appartamento mi colpì più di tutti. Fu certamente per via del bel sorriso triste di Shirley MacLaine e la malinconica simpatia di Jack Lemmon – l’attore preferito di mio padre – che scolava gli spaghetti con la racchetta da tennis. Ma più di tutto ricordo la mia fascinazione nell’apprendere come Wilder adoperò dei trucchi scenografici per rappresentare la sconfinata distesa di scrivanie nello stanzone della compagnia di assicurazioni. Il cinema come arte, gioco e magia. Col senno di poi, credo che la mia passione per il backstage nacque proprio da lì.