La sala dove da giovane vedevo i maestri del cinema era un vecchio deposito trasformato in cineclub, mentre la Cineteca Sarda stava in un appartamento il cui ambiente più grande fungeva da spazio per le proiezioni. Non era il dopoguerra, ma nei primi anni Ottanta era questo il cinema d’essai a Cagliari. Sugli schermi di questi spazi di fortuna ho divorato con ritmi da festival i fotogrammi in 16mm che mi hanno illuminato: Chaplin, Ford, Bergman, Fellini, Ejzenštejn, i tedeschi di Weimar, le avanguardie francesi… e soprattutto Buñuel, con Los Olvidados, L’âge d’or e specialmente L’angelo sterminatore.

Un film particolare, claustrofobico e privo di azione, assurdo e paradossale, ma vedere quei borghesi bloccati in una sala, prigionieri di se stessi, chissà perché, mi aveva affascinato. E non era certo la prospettiva politica che i miei coetanei engagé intravedevano in ogni sequenza, quanto forse la geniale capacità di rendere vera una condizione surreale e profondamente incongrua.