Son presto dicibili, al netto di elenchi lunghi, i film che s’incontrano una volta sola nella vita, e fanno un’idea di cinema e di mondo (le due s’identificano, a sentir Daney). Ma cosa, a monte, rende possibili quegli incontri?

C’è un’immagine. La memoria la restituisce come la “prima”, nel tempo, della cui intensità mi sia chiesto (bambino). E che ha poi innescato l’interrogarmi su altre incontrate. È l’occhiataccia che, ne La finestra sul cortile, Thorwald, conscio d’esser spiato, lancia al dirimpettaio Jeff. A filo macchina, contro di noi. Ci scopre, potenzialmente vulnerabili, ma, diversamente da quanto sarebbe nel vivere quotidiano, liberi d’esserlo senza conseguenze: non è meglio, così?

Sguardo la cui sanzione non fa male. E insieme immagine che, sapendosi guardata, par quasi non più solo immagine che innocentemente, o impunemente, può osservarsi. Chiedersi di lì in avanti, di modi e forme in cui altre immagini potessero avvincere, o sconcertare, era anche imparare ad amarle.