La voce fuori campo di Enzo ha appena raccontato il crimine che lo ha costretto dietro le sbarre. Lo ha fatto in sovrapposizione ad immagini d’archivio estranee alla sua narrazione (stralci di film western, riprese di locali anni ’70). Alla fine della sequenza la voce non è più quella registrata da Enzo per il film. Si tratta di un nastro che riproduce un messaggio per Mary, la sua donna, che lo aspetta fuori di prigione. Il nastro si sovrappone questa volta ad un’immagine in negativo, dalla pasta rovinata, color seppia. Una donna con un velo (forse una suora, forse una donna d’altri tempi), che sistema la sua acconciatura davanti allo specchio. Questa volta, due pezzi d’archivio diversi: un’immagine d’epoca, un suono intimo custodito da due amanti. Il contrappunto che viene a crearsi cristallizza in pochi secondi una tendenza importante del nostro cinema documentario contemporaneo. Dall’incontro di due linee autonome emerge con forza l’identità di un racconto. “Amore scusa se parlo un po’ piano”.