Non credo di avere un film della vita. Forse perché, come tutti, non ho (avuto) una vita, ma molte. Ritornando con la memoria all’infanzia, mi accorgo però che Indiana Jones e l’ultima crociata ha lasciato una traccia profonda nella mia esperienza di spettatore cinematografico – o, meglio, di consumatore mediale. Era l’autunno del 1989, avevo dodici anni ed ero un accanito videogiocatore (rigorosamente amighista). Da qualche tempo non stavo più nella pelle: la Lucasfilm aveva annunciato l’uscita del suo prossimo adventure game, tratto proprio dal terzo capitolo della saga spielberghiana. Da fan sfegatato di Indiana Jones, mi ero fatto portare immediatamente al cinema. Ma già mentre vedevo il film pregustavo il fatto che lo avrei potuto (ri)giocare per conto mio, reimmergendomi interattivamente nel suo universo di racconto. Ancora non lo sapevo, ma mi sarei trovato davanti a una forma embrionale di narrazione transmediale, fenomeno che negli anni successivi mi avrebbe affascinato tanto come fruitore quanto come studioso.