Il silenzio degli innocenti l’ho visto al cinema, avevo undici anni. Per mia mamma fu una proiezione condivisa molto sofferta, ma non abbastanza – evidentemente e per fortuna – per decidere di uscire dalla sala. Non sono sicura che questo sia fra “Le films de ma vie” ma, a distanza di trent’anni da quel pomeriggio che ho sempre trovato un momento deliziosamente trasgressivo, mi piace pensarlo come un segno, un monito. Buffalo Bill, il serial killer a cui la protagonista sta dando la caccia, è un sarto che opera con la coerenza estetica di chi fa dei propri delitti un rito magico che da crisalide lo trasformerà in farfalla. Un mondo perfetto e saturo di simboli misteriosi. Fra le pieghe di quel personaggio è perfettamente racchiuso il modo in cui nel tempo sono diventata prima spettatrice e poi anche studiosa delle immagini in movimento. È nel ruolo del sarto, di colui che cuce una narrazione, una pellicola e anche un abito, che io trovo tutto quello che continuo a cercare nel cinema.

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