Sin dal profetico titolo I cancelli del cielo assume lo statuto di “miraggio” balenato sulla frontiera simbolica tra autorialità e industria in quel fatidico 1980. Cimino ha la radicale e inammissibile ambizione di riconfigurare ogni istanza sedimentata in 85 anni di storia del cinema perdendo tutto il nostro tempo tra il cielo e la polvere, la ninfa e lo straccio, il deserto e il giardino, il treno e il cavallo, Harvard e il West, il capitalista e l’immigrato, il ballo e la guerra, la violenza e l’amore. Danzando vertiginosamente tra Ford e Visconti, Griffith e Ėjzenštejn, von Stroheim e Kurosawa, e ridando una forma espansa agli amati sentieri del classico attraverso ogni deriva della modernità.
La ricerca dell’impossibile montaggio definitivo del film – tra le rare versioni trasmesse in Tv, proiettate in una rassegna o acquistate in VHS – è stata in fin dei conti quella di un’ideale purezza del cinema. Un miraggio (in)visibile e perennemente incompiuto come le passioni più vive.