Gertrud di Dreyer; un dono, una scoperta del primo anno di studentessa di cinema all’Università di Pisa, 1969-70. Perduta per ore a rivedere quello e altri film nel solo modo in cui allora si poteva rivedere un film e fermarlo, bloccare un’immagine e poi rimetterla in moto: alla moviola, la vecchia moviola dell’Istituto di Storia dell’arte, con la mano su quella leva come sul cambio di un’auto. E si viaggiava infatti, su strade di pellicola. Decisi che Gertrud era la mia eroina. Come la Catherine di Jules e Jim di Truffaut. (Poi mi sarei inabissata in Giovanna D’Arco, ancora Dreyer: il film, e poi Nana che lo guarda in Vivre sa vie di Godard. E poi…).  Gertrud, Catherine: così diverse, eppure entrambe integre, assolute, indipendenti.  Sono passati più di cinquant’anni: misuro le distanze, e paragono Gertrud a Catherine, in un intreccio complicato che ancora le conduce a me e alla mia vita, a com’ ero innamorata di queste donne, a come mi hanno fatto innamorare perdutamente del cinema.