Ci spinge al cinema una strana forma di desiderio che si accende a partire da un’imbeccata. In famiglia o altrove, capita di incontrare qualcuno ostinatamente rivolto al grande schermo. È l’inizio di un’emulazione creativa, l’essere spettatore.

Diversi anni più tardi, all’università, ho visto Fight Club. Era nel corso di Marco Dinoi sulle immagini dell’11 settembre 2001 e sulle potenzialità testimoniali del cinema. Con Fincher e Palahniuk riflettevamo sull’inquietudine dell’Occidente nel passaggio al nuovo millennio, prima del crollo delle Twin Towers. Nel finale del film – con l’anonimo protagonista e Marla che guardano l’esplosione dei grattacieli attraverso la finestra – trovavamo la diagnosi di una deriva dell’immaginario e dunque la prognosi del suo imminente impatto sulla realtà.

Fight Club non è il mio film preferito. Ma, a partire da quel pomeriggio, il cinema mi sembra uno straordinario modo per riflettere sulla cultura visuale contemporanea, sulle forme stesse del presente.