Un “teatro” che non conclude il senso messo in scena, ma lo affida all’inconscio, alla stilizzazione dei personaggi e degli oggetti, alla rigida organizzazione dello spazio. Nel percorso gestaltico ogni scena è lunga, statica e conclusa; si basa come nel kabuki su una serie di sospensioni e reiterazioni, cristallizzandone i momenti anti-climax. Il logos acquista l’aurea del sogno perché sia la posa a conferire il senso, non il movimento, che al contrario è fugace, proprio del mujo, la vita transeunte.

Il proscenio non prevede un fuoricampo, ma si struttura in modo da rinchiudersi man mano che gli altri personaggi lo disertano. L’asse spazio-temporale si articola in un’economia visiva composta da una rete euritmica di sguardi che ripercorrono più volte gli stessi itinerari, descrivendo così la dimensione libidinale del film, demarcando una distanza crescente rispetto allo spettatore e simulando profondità e spazio reale (quello esterno, del Giappone, della follia militarista).

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