Per giocare a calcio ci vogliono due cose: un campo e un pallone. Il prete dell’oratorio di fronte a casa mia li aveva entrambi, ma li distillava con parsimonia. Campo polveroso, porte senza le reti, pallone malridotto. Gioielli usurati dal tempo, ma pur sempre gioielli, almeno per i ragazzini del quartiere. Per avere accesso al campo e alla palla, nel canonico spazio del sabato pomeriggio, bisognava prima andare al cineforum da lui stesso organizzato: film in bianco e nero, vagamente misteriosi, introdotti e commentati a posteriori. E’ passato quasi mezzo secolo, ma tre titoli me li ricordo ancora: Nazarin di Bunuel, La strada di Fellini, La ragazza con la valigia di Zurlini. La sala cinematografica (in realtà nulla più che uno stanzone con le sedie) come sala d’attesa, del momento in cui si sarebbe finalmente giocato a football. Ma da quelle visioni forzate ho cominciato vagamente a farmi un’idea del cinema d’autore come luogo di storie stravaganti, piene di sofferenza e personaggi sventurati

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