Uno schermo blu. L’immagine meno cinematografica che si possa immaginare. Eppure, innervando completamente il film testamento di Derek Jarman, essa restituisce un’idea profonda di cinema, legata alla rappresentazione del tempo in sé. Per una matricola universitaria di inizio millennio, assetata di visioni rare nei cinema o in televisione, l’incontro con Blue fu il ritrovamento di un tesoro dopo una lunga caccia: un’immagine monocroma accompagnata da un commento a più voci e dalle tracce sonore di Simon Fisher Turner e Brian Eno (tra gli altri), in cui si susseguono le riflessioni sulla quotidianità di un artista malato e sul mondo che lo circonda. In tutto ciò, lo schermo blu, anziché essere un diaframma che ci impedisce di vedere ciò che descrivono John Quentin, Nigel Terry, Tilda Swinton e lo stesso Jarman, costituisce uno squarcio sull’invisibile, sull’interiorità del cineasta: una rappresentazione del tempo dall’interno del tempo. Puro cinema. Una visione sublime.