Quando, in un’aula universitaria, una ventina d’anni fa, ho sentito per la prima volta Spartaco dire a Maddalena: “So’ tutte favole…”, ero da poco iscritta a un corso di laurea in cui – come mi sentivo dire con diffidenza – “si guardavano i cinema”. Nello sguardo rapito di Maddalena ho visto rappresentata tutta l’ingenuità e la meraviglia con cui anch’io stavo guardando dentro quel doppio schermo, avvicinandomi a un territorio tutto nuovo da conoscere, da studiare e, nel mio caso, anche un po’ da difendere e rivendicare: chi era quel Montgomery Clift, tanto “simpatico”? Quale il titolo di quel western in cui una mandria attraversava un corso d’acqua “co’ tutto ‘l caretto”? In quella piccola platea di spettatori incantati sul fondo dell’inquadratura, investiti dal riverbero luminoso dello schermo, in realtà ci sarebbero stati benissimo anche gli Spartaco di casa mia, e questo soprattutto mi sembrò meritare tempo e attenzione: “Nun so’ favole…”.